METAFISICA DEL FUOCO SACRO
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https://rosas-dos-ventos.blogspot.com/2020/07/agni-ignis-metafisica-del-fuoco-sacro.html
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D.M.
Roberto Corbiletto
Nel 1925, aprendo la sua rivista «Ignis», Arturo Reghini invitava a riaccendere “il Fuoco Sacro” in Occidente. Egli spiegava che tale Fuoco doveva essere innanzi tutto inteso come il “fuoco filosofico”, il “calore centrale ed occulto che nell’atanòr, il vaso simbolo del corpo umano, compie ‘la conversione degli elementi’”. “E’ – aggiungeva – il fuoco rapito al cielo da Prometeo, il fuoco Naciketa che permette di liberarsi dai lacci della morte e senza affanno gioire nel regno dei cieli (Katha-Upan. I, I, 18), il fuoco sacro dei persiani e quello delle vestali. E’ la fiamma in cui vive la salamandra ermetica, e da cui s’invola, rinascendo dalle sue ceneri, la purpurea immortale Fenice”. In quello stesso periodo, René Guénon, di cui quest’anno ricorre il cinquantenario della morte, invocava “l’aiuto dell’Oriente” per riaprire all’Occidente le vie della pura metafisica tradizionale e uscire dalla “crisi del mondo moderno”. Le esigenze di Reghini e Guénon sono ancora le nostre. Per questo, allorché abbiamo ricevuto gli auguri graditissimi del professor Pio Filippani-Ronconi per la nostra rivista, abbiamo colto l’occasione per chiedere a lui - orientalista di fama internazionale, ma per noi anche e soprattutto pellegrino e cavaliere per le vie d’Oriente e d’Occidente nella “cerca” della “pietra di luce” – di rivedere e permetterci di ripubblicare il suo contributo al Convegno su “Il ritorno del Fuoco Sacro in Occidente”, già apparso nel 1995 con diverso titolo sul supplemento al n° IV della rivista «Mos Maiorum», animata dal compianto amico Roberto Corbiletto, cui va, per congiunta volontà dell’Autore e de «La Cittadella», la dedica di questa nuova stesura. Senza l’opus interiore non vi è fuoco esteriore che possa riardere visibilmente nel cuore dell’ Occidente: è questo il monito che ci viene dalla seguente, magistrale esposizione di Filippani-Ronconi, da meditare perché sia chiaro che la Tradizione vivente nasce dalla realizzazione spirituale, in Oriente come in Occidente, ieri come oggi, oggi come domani (s.c.).
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Nel trattare la dimensione metafisica del Fuoco sacro presso le genti arie, ci siamo imposti di limitarci all’àmbito storicamente più antico e, perciò, a nostro avviso, più ricco di significati primordiali, cioè il periodo vedico, il cui retaggio ci è stato miracolosamente conservato dalla remota protostoria fino al giorno d’oggi, sia per la parte dottrinale, che per quella liturgica, ma soprattutto – grazie alla peculiare vocazione dell’ambiente indiano – per quanto riguarda l’interiorizzazione del rito e del mito, la realizzazione dell’elemento-agní nella coscienza visionaria del sacerdote. E penso che ricorrere all’ausilio della tradizione indiana e di quella – importantissima – iranica per recuperare le interiori fattezze del Fuoco sacro, sia particolarmente utile ai fini della ricostruzione vivente di quel Fuoco “occidentale” che tentiamo di ritrovare nella nostra Roma, onde rievocare la cosiddetta Pax Deorum passata all’invisibilità dai tempi di Graziano e Teodosio, quando la sacrilega volontà dell’Imperatore, convertita ai dèmoni peregrini, estinse la casta fiamma di Vesta che legava la sfera del tempo terreno storico e fattuale col il supramondo delle intenzioni archetipe, da cui Roma traeva ispirazione e vita.
Trattare del Fuoco vedico implica una cognizione sia pure sommaria del presumibile orientamento interiore, dello spirito come dell’anima, degli Arî indiani, che è lontanissimo dalla percezione attuale del mondo rappreso nella dimensione spazio-temporale come realtà a priori, a cui corrisponde – nell’interiorità del soggetto che se lo rappresenta – un pensiero astratto, praticamente morto, ed una coscienza logico-discorsiva; livelli, questi, di coscienza che nell’Occidente si sono sempre di più affermati, sin dal tempo della “morte degli Dei” di cui parla Plutarco da Cheronea, e sui quali si è strutturata tutta la scienza oggettiva e, quindi, l’organizzazione politica, economica e sociale quale si è andata affermando dal Rinascimento in poi. Indipendentemente dagli strati culturali, razziali, castali e genericamente religiosi, l’India conserva, con una grandissima varietà di applicazioni, una scienza interiore nascente da un’antichissima Sapienza continuamente rinnovellata dall’esperienza di infaticabili asceti, qual è – probabilmente negli ultimi quattro millennî – quell’insieme di discipline che conosciamo come Yoga.
Secondo queste discipline e non soltanto queste, l’uomo è assiato su quattro stati di coscienza: veglia, sogno, sonno profondo e catalessi (jagrâtâ, svapna, susupti, turîya), ad ognuno dei quali sperimenta se stesso, il mondo e la realtà del pensare secondo diverse prospettive. Allo stato di catalessi, il “quarto”, si sperimenta l’identità suprema di âtman e brahman, cioè di “se stesso” e “spirito universale”, in una condizione di vuoto (shûnya) assoluto, di stéresis: questa identità è materiata di volontà pura che si attua come calore primordiale, tapas. Allo stato di sonno profondo, il Verbo (vâc, shabda), si attua come un “io sono” cosmico rifrangendosi nelle 16 vocali creatrici, potenze di luci e di suono delle quali è sostanziato il Veda. Allo stato di sogno si attua la prima dicotomia fra parola-significato e oggetto: a questo livello, rispetto al quale sognamo, quando invece stimiamo di essere svegli, si attua nella parola-pensiero, il mantra, l’insieme delle potenze di vita, prâna, che reggono la compagine vivente dell’uomo, quella che, allo stato di veglia, si afferma come mondo fisico, sia soggettivo di corpo fisico, che oggettivo, di mondo materiale ad esso opposto. Ad ognuna di queste quattro condizioni corrisponde un livello diverso di coscienza, che dalla percezione di se stesso e del mondo nella specie fisico-materiale eminentemente separativa (“io-altro”) allo stato di veglia, perviene – nel “quarto stato” o di catalessi – alla suprema identità di io e universo, identità che negli altri stati di coscienza, specialmente in quello di veglia, è latente, immanente, altrimenti non potrebbe darsi alcuna forma di conoscenza, nemmeno quella grossolanamente materiale. Questo pensare cosmico, questa “gnosi”, prajñâ, che attraversa come una “aurea colonna”, hataka-stambha, le varie condizioni di coscienza, è intuita nei Veda, specialmente nel Rg-veda e nel Yajur-veda, come il Fuoco sacrificale che unisce il mondo degli uomini e quello degli Dei. A questo punto devo precisare un altro fatto molto importante, addirittura fondamentale per la comprensione anche del rito pagano. Gli Dei non sono l’“a priori” del mondo creato e, quindi, del sacrificio. E’ la volontà cosciente dell' uomo che, attraverso il sacrificio, con la potenza del Verbo, il mantra (etimologicamente “pensamento”) da lui rettamente articolato, evoca e in un certo modo “crea” gli Dei. Ciò perché, prima che il tempo fluisse e il genere umano venisse manifestato, tutti i mondi, tutti gli esseri e le loro virtualità erano comprese nell’Uomo Universale, Prajâpati, dal cui auto-sacrificio venne ad essere l’Universo, ma che tuttora è presente ancorché latente nel cuore di ogni uomo, come purusa, individualità spirituale. Questo potere, questa volontà cosciente che suscita gli Dei, è dai Veda identificato a kavi-krátu, “il potere del vate, del veggente”, e jâtá-vedas, “colui che conosce le creature”, manifestazioni di Agní, il Fuoco sacro, che adesso descriveremo sommariamente.
Per l’Indiano vedico il fuoco sacrificale è, quindi, la “realtà presenziale” dell’uomo, quella per cui egli s’incarna nel mondo dello spazio e del tempo, senza smarrire però l’interiore dimensione spirituale. Nella struttura fisica dell’uomo, Agní è presente come tapas, il “calore” (cfr. latino tepeo, “sono caldo”), il calore apparentemente animale, che è, invece, manifestazione della “volontà di essere”, sia istintivamente come vivente, jîva, che spiritualmente come meditante, manîsina, secondo una volontà che “dal futuro si protende verso il presente” con quel movimento sintropico, “anti-naturale”, che permette alla vita di affermarsi nel mondo della parvenza continuamente morente, dominato dalla decadenza e corruzione biologica.
In un’opera purtroppo male conosciuta (I Veda, armonia, meditazione e realizzazione, Ubaldini ed., Roma 1976) Jeanine Miller identifica in Agní il principio immortale nell’uomo, mediatore tra terra e cielo (p. 183), ricordando come questo “potere insito e attivo negli Dei e potenziale negli uomini… innalza il mortale alla suprema immortalità” (RV I, 31, 7 amrtatve uttame martam). E ancora: “nato nel più alto dei cieli” (RV VII, 5, 7), mediatore tra il Cielo e la Terra, l’“ospite degli uomini” (athitim janânâm)… “che dimora in abitazioni terrene e nella terza sfera celeste”… “Egli che conosce la via degli Dei” (RV I, 72, 7) è “colui che conduce a quella dimora triplicemente celata, la misteriosa sede ove regna il Non-nato” (RV I, 164, 6)… custode dell’ambrosia (RV VI, 7, 7), dell’ámrta, conoscitore d’ogni sapienza” (vishvâni kâvyâni vidvân). Nel RV I, 31, 7 è riferito che Agní innalza l’immortalità potenziale celata nella materia e nell’uomo come luce divina alla grandezza della vera immortalità che regna pienamente nell’empireo supremo (amrtatve uttame). Mediante il tapas, che viene interiormente acceso, l’uomo procede verso la purificazione e, di là, verso l’estasi intuitiva. Gli uomini realizzano se stessi passando attraverso la fiamma di Agní che devono accendere nella triplice dimora (tri sadhaste): questa fiamma è la luce del sole, la “vasta luce” (uru jyotih), che gli rsi scoprirono mediante la meditazione (dîdhyânâh, RV VII, 90, 4): la percezione che ha come occhio il sole e consegue l’estasi intuitiva e l’omniscienza. Questa estasi irrobustita dall’ambrosia, o il soma, eleva la creatura umana allo stato divino.
Come appare evidente, il fuoco è concepito nei Veda come il tramite che unisce il mondo degli uomini a quello degli Dei, poiché egli trasporta in cielo l’oblazione (homa) offerta dagli uomini nell’atto sacrificale (karman, yajña), dal mondo visibile a quello invisibile. Ma questo atto può essere realmente compiuto da un sacrificatore qualificato, che abbia cioè animato il triplice potere meditativo, cioè: 1) la capacità di sperimentare interiormente (bhâvanâ) il mantra, cioè la risultante dei suoni contenuti nel verso vedico, di là dal significato empirico delle singole parole; 2) la capacità di concentrarsi sulla dimensione-luce del pensiero (il dhyâna, dalla radice dhî, vedere, meditare), sì da conseguire naturalmente l’estasi visionaria; 3) il pensare, matis, colto nella sua essenza, che nasce dal cuore come luce (hrdâ matim jyotir anu prajânan, III, 26, 8) e si manifesta come “canto splendente”, arka. In tale modo matis diventa manîsâ, l’“intuizione continua” la cui matrice mistica è la Verità (rtasya pade), da cui derivano tutti gli altri poteri che i meditanti (naro dhiyamdhâh) ritrovano avendoli modellati nel loro cuore (hrdâ yat tastan mantrân ashamsan, I, 67, 2).
Da queste brevi note appare evidente come la interpretazione material-naturalistica cara alla scienza delle religioni sia totalmente contraddetta dal contenuto oggettivo dei canti vedici, che, pur mantenendo la identificazione fisica del fenomeno-fuoco, lo considerano simbolo vivente di un’esperienza spirituale, alla quale si accede mediante un’illuminazione interiore, una specie di Yoga proto-indiano orientato secondo una direzione uranica e luminosa. In questa prospettiva, gli Dei sono contemporaneamente i fenomeni esteriori della Natura universa e gli impulsi spirituali interiori, che però si attuano secondo una conversione, una metánoia continua, che riconduce il fenomeno fisico al suo archetipo celeste. Nella prassi del sacrificio vedico vige l’ammonimento: “na ádevo devam arcayét”, “non chi non sia un dio veneri un dio!”, una allusione chiara al fatto che il sacrificante debba essersi assimilato, mediante l’estasi illuminativa, alla figura divina che intende evocare per proiettare secondo lo opus sacrificale (épas) che intenda compiere. Mancando lo spazio, il tempo e la ragione per cui dovremmo attardarci a studiare e descrivere i riti – quasi tutti – che hanno Agní, il Fuoco, come figura centrale, limitiamoci a citarne le principali funzioni e fattezze.
L’aspirazione costante degli Arî vedici di ricollegarsi al mondo celeste della Verità, Satyá, e dell’Ordine cosmico, Rtá, è esaudita mediante il sacrificio, yajñá, fondato sul culto del fuoco (agní, cfr. latino ignis), al quale viene libata l’offerta, lo homa. Al Fuoco, che col suo moto dal basso all’alto congiunge il mondo terreno a quello degli Dei, sono dedicati circa 200 inni vedici, nei quali, fra l’altro, viene simbolicamente descritto: la schiena unta di burro (ghrta, “l’Avvampante”), chioma di fiamma, barba scura, mandibola tagliente mediante la quale divora l’offerta, non per sé ma per gli Dei. Fra gli scarsi miti che lo caratterizzano, ve ne sono alcuni, relativi alla sua triplice nascita, che saranno oggetto di speculazioni mistiche e metafisiche: “dal Cielo una volta è nato come Agní (letteralmente “colui che promuove”, dalla radice ag, lat. agere); fra di noi una seconda volta come Jâtá-vedas (“Colui che conosce le cose nate”); una terza volta “fra le acque” (come folgore fra le nubi); lui, inestinguibile, risveglia attentamente il sacerdote, accendendolo” (RV X, 45, 1). Oltre alla sua triplice nascita, questa volta come Sole (Sûrya), folgore e fuoco terrestre, nato dal soffregamento delle due asticciole (araní), per cui è chiamato “figlio della violenza/forza” (sáhasah sunúh), Agní riveste funzioni pratiche e, allo stesso tempo, caratteri mistici rilevanti. Nel primo caso è detto “Signore di Casa” (grhá-pati), “ospite” (átithi) per eccellenza, “sacerdote domestico” (puró-hita), “invocatore” (hótar), “officiante” (adhvar-yú), termini questi che si riferiscono all’officio esercitato nella triplice oblazione sacrificale: 1) al fuoco domestico (gârha-patya) acceso in un focolare rotondo; 2) indi al “fuoco oblatorio” (âhavaniya) acceso a est in un focolare quadrato; 3) il “fuoco destro” o “meridionale” (dâksina) acceso a sud su un focolare a mezzaluna per scongiurare i cattivi influssi. Ma molto più importanti sono le sue funzioni come entità mistica assunta sub specie interioritatis. In quel caso abbiamo la figura, già allusa, del kaví-krátu, “la forza intelligente (kratu, cfr gr. krátos) del vate”, cioè la volontà illuminata dell’asceta che si esprime come tapas, spiritualizzazione del calore naturale del vivente. Il fuoco è anche concepito come il Figlio di Sette Madri, le quali sono i sette principî sui quali si fonda l’esistenza dell’uomo: anna, il cibo, cioè corpo fisico, prâna, il respiro, cioè l’energia vitale, manas, la mente, vijñâna, la coscienza discriminante, indi i tre principî spirituali che sono sat, cit, ânanda, cioè: essere, coscienza e beatitudine, la pienezza interiore alla quale corrisponde obiettivamente l’esperienza del trimundio bhûr-bhuvah-svar (terra, atmosfera, cielo), trasceso dai quattro principî cosmici: mahas, la vastità, jana, archetipo umano o la creatività, brhat, luce-parola vibrante, tapas, volontà cosciente. Come tale, Agní è celebrato nel Rg-veda (V, 3) come “Deva Supremo” e identificato successivamente ai due Dei della regalità, Mitrá e Váruna, al signore degli Dei Indra, indi al protettore della famiglia ârya, Aryamán, dato che in essi si riassumono tutte le potenzialità delle tre caste divine e umane, quella dei sovrani, quella dei guerrieri e legislatori e quella dei produttori di ricchezza, salute e vita.
Da quanto esposto risulta evidente come il Fuoco dalle molteplici valenze costituisca la “spina dorsale” dell’esperienza religiosa vedica, sia per quanto attiene al suo aspetto liturgico – ché, senza il fuoco, il rito sarebbe impossibile e il collegamento con la sfera celeste negato – e sia per quanto riguarda l’esperienza interiore del sacrificante che, attraverso la interiorizzazione del rito tende a conseguire quell’“estasi attiva” che i Misteri del nostro Mediterraneo qualificavano come epopteia, “visione ciclica del Reale”. Avuta questa visione – dicono espressamente i testi – il sacrificante già iniziato con l’investitura del cordone sacro, lo yajñôpavîta (corrispondente all’avyañjana, o kosti, iranico), sperimenta l’immortalità, lo ámrta, essendo stato introdotto, anima e corpo, nel mondo degli archetipi, di cui “Tutti-gli-Dei”, i Vishvedevâh, sono il simbolo attuale e vivente.
Millenni più tardi, oscuratasi la trasparente coscienza già propria agli Arî antichi, la Via verso il Cielo già indicata dai Trentatré Dei vedici resterà, bensì, retaggio degli Uomini, che ancora potranno percorrerla giovandosi di altri supporti, come lo Yoga, i Tantra e le Samhitâ, segnacoli di libertà nei tempi oscuri, almeno in India.
Epperò, “il ritorno del Fuoco Sacro in Occidente”, che a noi qui sta a cuore, potrà essere attuato, non solo quando le antiche tradizioni ancora viventi come quella vedica saranno ben conosciute, ma quando torneranno ad esserci uomini capaci di calcare la Via iniziatica che, secondo anche ciò che esplicitamente dicono i Veda, è fondata sul raccoglimento interiore, la concentrazione, la meditazione e, in genere, la smobilitazione degli psichismi, delle ossessioni mentali e della meccanizzazione della conoscenza. Ricordarsi occorre che la “tradizione” non patisce trascrizioni canoniche e dogmatizzazioni, ma richiede l’esperienza vivente, sempre rinfrescata, di chi voglia ritrovarla. In tale modo il Sacro tornerà ad essere la dimensione intelligibile del Reale, e la vita cesserà di essere una funzione animale, per tramutarsi in un arto di quella cosapevolezza, la samvid dell’antica Scienza spirituale degli Indi, che è il nocciolo della nostra presenza nel mondo:
l’“Io- sono”.
Onore al Professor Filippani Ronconi, fulgido e purtroppo "non attuale" esempio di armoniosa unione fra virtù intellettuali e guerriere... Invidio fortemente e benevolmente chi ha avuto o avrà il privilegio di incontrarlo...
SS-Obersturmführer Graf Pio Filippani-Ronconi del 1. Sturmbrigade der Italienischen Freiwilligen Legion e in seguito SS-Sturmbrigade Italia (immagine tratta dal sito http://www.societacivile.it/)
Dal sito http://www.area-online.it/
Dal Cid all'Urri
int. a Pio Filippani Ronconi
Erano mesi che lo inseguivo. Non perché scappasse, ma la salute, ultimamente, lo aveva un po’ maltrattato, affaticandolo. Ho aspettato, perché era proprio con lui che volevo avviare alla conclusione il ciclo dei "Miti fondanti". E alla fine eccolo qua.
Pio Filippani Ronconi, classe 1920, è uno dei più grandi orientalisti viventi, e per elencare i suoi titoli e i suoi meriti avrei bisogno di un foglio allegato. Ma devo aggiungere che, in ogni caso, è arduo mettere su carta una delle qualità più nette di Pio Filippani Ronconi, la presenza, e di ancora più ardua resa è la chiarezza dei suoi silenzi. Ma proverò a raccontarvi tutto.
Filippani è una delle ultime memorie storiche (e sapienziali) delle destre italiane: diversi autori che molti di noi amano leggere, lui li ha conosciuti e ne è stato amico (come Evola, ad esempio, o anche Massimo Scaligero, con il quale Filippani si esercitava nella meditazione: "Era un cammino molto placido, il suo. Conobbi anche il maestro di Scaligero, Egidio Colazza… Fu molto gentile con me, che al contrario ero poco propenso alla placidità, in quel tempo").
La sua partecipazione alla guerra con la divisa tedesca non gli procurò problemi a guerra finita - a parte gli arresti di fortezza ("molto poco romantici!") e il "parcheggio" nel campo di concentramento di Coltano - tanto da poter avviare, nel 1959, una carriera accademica di tutto rispetto all’Istituto orientale dell’Università di Napoli. Poco tempo fa, invece, chiamato a collaborare al Corriere della Sera, in qualità di illustre orientalista, ha dovuto subire un’epurazione ad opera del komintern di redazione, con il quale non ha voluto polemizzare ("L’acqua bagna, il fuoco brucia: è il dharma, come lo chiamano gli indiani… sarebbe a dire che ognuno fa le cose con i mezzi che ha. C’è gente che striscia nel fango e non può fare altro che inzaccherarti"). Certe miserie sembrano scivolargli addosso, come si suol dire: ma il bello è che nel suo caso è tutt’altro che un luogo comune.
Da dove è cominciato tutto? Cos’è che porta ancora dentro dell’inizio del cammino?
"Senz’altro i racconti della vita di mio padre… Ecco, vede?" dice indicando una vecchia fotografia appesa al muro dietro di noi, che prende luce dagli ampi viali dell’Eur, "mio padre è quel signore a cavallo. Il luogo dove si trova è la Patagonia. Aveva venduto i beni di famiglia per andare in quella terra sperduta. Portava il bestiame dall’Atlantico al Pacifico, a cavallo. La sua vita stessa era un’avventura da raccontare… Un giorno, aveva appena depositato i soldi incassati dalla vendita di una mandria che aveva portato valicando le Ande, quando i banditi assaltarono la banca, rubando tutto. Lui inseguì il "mucchio selvaggio" per tre giorni e tre notti".
Come Tex Willer!
Un Tex Willer con la laurea in Ingegneria. Mio padre rappresentava per noi un polo di grande attrazione. Era un uomo che non si limitava ad insegnarci… che so… l’importanza dell’acqua, ma, anche per la vita che conducevamo, ci mostrava la necessità di raggiungerla anche nelle condizioni più difficili, come quella volta che dovette scavare un pozzo profondo ottantaquattro metri. E i suoi racconti, i racconti di famiglia, sono stati fondamentali per noi, bambini italiani lontani dall’Italia.
Perché fondamentali?
Perché mentre in patria si è omogenei all’elemento vitale in cui si procede, all’estero avevamo, come dire, una doppia o tripla esistenza. Io son vissuto in Catalogna, e nella vita quotidiana ci trovavamo in un ambiente che da una parte era spagnolo, e già non era il nostro, dall’altra, essendo in terra catalana, si odiavano gli spagnoli, e noi parlavamo il castigliano. E siccome la mia famiglia abitava in un palazzo di sette, otto piani, quindi molto moderno, ero letteralmente circondato da gente che parlava una lingua diversa da quella in cui io pensavo.
In italiano?
No, in castigliano.
I primi libri?
Cominciai a leggere molto presto. Amavo i racconti sul mondo mitico romano: erano, come dire, un’ancora di salvezza del nostro costume di vita. Ma il nutrimento della mia anima erano le gesta del Cid Campeador, che corrispondevano in tutto e per tutto all’insegnamento silenzioso di mio padre: io sentivo di dovermi comportare come un caballero. Fortunatamente ero nato in un ambiente non confortevole che mi consentiva di temprarmi. Mio padre mi aveva insegnato i principi della boxe… e anche mio figlio ora si diletta in quest’arte… ma nei miei tempi, e nei luoghi dove vivevo, il picchiare forte e picchiare per primo era assolutamente indispensabile, perché se no il giorno dopo mi sarei trovato altri quattro ragazzotti che mi avrebbero riempito di pugni. E in ogni caso ne andava dell’onore italiano!
Un italiano nato in Spagna, con il padre passato da Inghilterra, Carabi e Patagonia. Non era facile conservare chiarezza sulle proprie radici…
Non solo! Mia madre aveva iniziato la sua adolescenza a Massaua, dove il padre, mio nonno, lavorava presso il governo militare italiano: lui parlava perfettamente l’arabo classico e l’arabo comune. Non per niente, la prima lingua che ho imparato fuori della scuola, oltre all’inglese, è stato l’arabo.
A che età?
Quattordici anni. Eravamo poveri, così avevo risparmiato per un anno gli spiccioli per le piccole merende che portavo a scuola. Alla fine comprai finalmente una malridotta grammatica araba, che però non era quella giusta, era un dialetto parlato dai berberi: mio nonno mi indirizzò poi verso l’arabo puro. Subito dopo imparai il turco e più tardi, già in Italia, imparai il persiano… Ecco, vede? [indica un’altra foto, su una cassettiera] là sto conversando con lo Sha di Persia.
Aveva una certa facilità con le lingue.
Ma non era mica tanto facile! E’ che mi ci mettevo di buzzo buono! La mia giornata era divisa in due parti: la prima era impiegata a seguire la scuola… e non ero un bravo allievo, ero piuttosto sognante, mentre la scuola italiana era estremamente dura: studiavamo lo spagnolo, l’italiano, il francese, l’inglese… tutti i giorni avevamo molto da studiare, molto da fare ginnastica, corsa e altre cose del genere. Nella seconda parte studiavo da solo quel che piaceva a me. Anche il greco lo imparai da solo, come il turco e lo spagnolo antico. Una mia zia mi regalò poi una grammatica sanscrita, un dono preziosissimo; io avevo già studiato, sempre da solo, quelle che erano le migrazioni dei popoli arii, quindi il portato culturale delle varie tradizioni indoeuropee, come l’Edda poetica e in prosa e il sanscrito, mi consentì di approfondire quelle conoscenze. Molti anni più tardi imparai un’altra lingua scandinava, lo svedese, ma avevo già studiato l’antico norvegese, il norreno… Poi, vediamo… l’anglosassone, l’aramaico (ma non sono mai riuscito a togliermi quel fastidioso accento arabo), il tibetano, il cinese, un po’ il giapponese…
Prendiamo per buono il buzzo buono…
E’ che non si può galleggiare su quello che ci insegnano: bisogna approfondire!
Tornando alla difficoltà di conservare le proprie radici in una babele simile…
Vede, per me l’Italia era… come dire… il Paese Fatato. Eravamo poveri, dicevo, perché scontavamo la scelta di mio padre di tornare dalla Patagonia per combattere: perdette tutto quello che aveva. Lui sapeva quello che rischiava lasciando i suoi animali dall’altra parte del mondo, ma la sua risposta, alle nostre domande se non fosse cosciente di quello che avrebbe rischiato venendo in Italia, lui tranquillamente rispose che "siccome noi siamo signori, dobbiamo combattere e dobbiamo essere di esempio agli altri". C’era il mito della Patria, insomma, ma una patria estremamente spirituale, per cui il non esserle vicino fisicamente non rappresentava alcuna limitazione.
Suo padre come il Cid.
Il mio mondo iniziava con il Cid Campeador, visto che lo avevo tra i piedi: era un’immagine di coraggio. Avevo una vita intima in profondo contrasto con la povertà che dovevo assaporare… una vita che guardava ad un futuro eroico. Quando io partii per la seconda volta in guerra, da giovane ufficiale, mi affacciai al finestrino del treno e gridai Viva la muerte! Perché la bella morte era quel che di meglio potesse capitare per difendere la Patria… ciò per cui vale la pena di vivere: un uomo si educa per allevare i figli e per combattere, questo avevo sempre pensato fin da bambino, ascoltando i racconti di mio padre e Il cantar del mio Cid.
Il combattimento, insomma, nel Dna.
Ma la guerra è una delle funzioni umane! Nei tempi antichi si soleva dire che le dame odiano la guerra, ma amano gli uomini che la fanno.
E le popolane dicevano che "si nun è bbono per il re, nun è bbono manco pe’ la reggina".
Appunto. Inoltre a quindici anni trovai in una bancarella L’uomo come potenza, di Julius Evola… Lui mi presentava un quadro per superare la miseria del sopravvivere quotidiano e dava un senso al fatto che io cercassi sempre di combattere… Dio!, sono molto cambiato da allora, eh? L’uomo come potenza, dicevo, mi apriva una concreta esperienza di ordine metafisico più che religioso, e così quei canti epici che tanto amavo acquistavano una dimensione reale: io potevo davvero realizzare quello che la tradizione indoeuropea mi proponeva. E questa fu per me una grande scoperta.
La guerra fa parte dei racconti che ricorda da bambino?
Certo. Fu l’esperienza di mio padre ad avvicinarmi a ciò che era la guerra. Lui era un pezzo d’uomo, molto forte… il contrario di me. Come dicevo, lasciò la Patagonia per combattere la Prima guerra mondiale, e si arruolò in un reparto qualunque. Poi, grazie alla sua prestanza fisica, venne assegnato ai "plotoni scudati", quelli che portavano un casco e uno scudo in acciaio per coprirsi, e andavano a mettere le cartucce di gelatina sotto i reticolati nemici. Era il racconto di un’esperienza concreta che ascoltavo con attenzione. Nella Seconda guerra mondiale venne il mio turno, e mi arruolai volontario nel Terzo Granatieri. Fui ferito un paio di volte, poi mi trovai ad essere molto malamente ferito il giorno dopo l’otto settembre 1943, ricoverato all’ospedale militare del Celio, a Roma. Il nove settembre mi resi conto che quello che avevo fatto fino ad allora non era altro che lo sfogo di un giovane studioso ed entusiasta; quello che avevo ancora da fare era qualcosa di molto più vicino all’ideale di uomo.
Ossia?
Lavare l’onta del tradimento. Mi trovai a combattere a Nettuno, con la divisa della Waffen SS, i reparti combattenti, tutta un’altra cosa rispetto alla SS Polizei… quelli ci hanno rovinato il nome. Insomma, costituimmo una squadra mista, italiani e tedeschi. Quando ci fu lo sbarco alleato facevo parte del Battaglione degli Oddi, il conte Carlo Federico degli Oddi, un vecchio ufficiale delle camicie nere, tenente colonnello. Al tramonto andavo con alcuni uomini a tagliare i reticolati e passarci sotto… Era un’esperienza molto bella, anche se il fatto di lasciarci la pelle era fatale. Oggi sono l’ultimo sopravvissuto di quel battaglione, l’ultimo di quei settecento: il settanta per cento morirono a Nettuno. Era un compito duro, non pensavamo alla gloria… era la gioia di vivere davvero, malgrado rischiassimo la morte.
Una fratellanza d’armi.
Precisamente. Una cosa molto profonda, che mi riportava al cuore le emozioni vissute sulle pagine lette da ragazzino. E’ ancora il Cid Campeador, che… [silenzio, chiude gli occhi, poi ritorna con un sorriso] "Caballero en un caballo - y en su mano un gavilán; por hacerme más enojo - cébalo en mi palomar; con sangre de mis palomas - ensangentó mi brial. ¡Hacedme, buen rey justicia, - no me la queráis negar! Rey que non face justicia - non debía de reinar…" [poi si ferma di nuovo e chiude gli occhi, scuote la testa e li riapre, guardandomi]… Che peccato, dimentico più di quel che riesco a ricordare…
E’ sempre molto di più di quel che sappiamo noi (dico sorridendo a Rodrigo, suo figlio, seduto accanto a me).
Non è una consolazione, ma tant’è.
In guerra è riuscito a continuare i suoi studi, in qualche modo?
Altro che in qualche modo! Riuscivo a concentrarmi dovunque. Tanto per farle capire, una volta, in Africa orientale, uscito in missione per misurare la posizione delle batterie inglesi, mi immersi con tanto piacere nei calcoli riportati sulla pagina scritta che dimenticai di trovarmi a pochi metri dai nemici e mi misi a camminare senza precauzioni: fecero il tiro al bersaglio, fortunatamente senza conseguenze. In seguito, la vicinanza con i tedeschi mi ha permesso d’imparare la loro lingua, che mi è tornata molto utile nel corso degli studi. Seguendo una mia via, poi, senza quasi rendermene conto ho intrapreso la carriera accademica, fino a diventare professore ordinario di Religioni e filosofie dell’India. Il fatto è che avevo un’ottima memoria… E sottolineo la forma passata del verbo avere.
Laurea in…
Indologia, tornando al vecchio amore. Subito dopo la laurea andai in Persia.
Ma il fatto di aver continuato la guerra nella Repubblica sociale, inquadrato nelle SS combattenti, le creava problemi nei rapporti con gli altri studenti e con i professori?
No. Anche per il fatto molto semplice che non frequentavo molto, ero solitario. Quasi tutte le lingue da studiare, ad esempio, le avevo già imparate da solo, quindi non avevo bisogno di seguire le lezioni.
E con il lavoro?
Nemmeno. Avendo la fortuna di conoscere molte lingue riuscivo a guadagnare facendo, ad esempio, un periodo da segretario ad un ministro sudamericano, poi doppiaggi cinematografici e, un po’ più a lungo, alla radiodiffusione per gli Esteri.
Nel frattempo lavorava su se stesso.
Sì, in ogni senso, non solo spirituale o mentale. Mio padre mi aveva insegnato i primi rudimenti del pugilato, che lui aveva imparato quando era studente a Londra, e quando ero arrivato a Roma, a sedici anni, ero passato nelle mani di Enzo Fiermonte.
Un mito per il pugilato romano.
Ho praticato anche Judo, Aikido… tra l’altro, poco tempo fa, ho guadagnato la cintura nera…
A quanti anni?
Ottantadue. E la cintura nera è, in qualche modo, simbolo di una iniziazione. Nel senso che io resto il solito quotidiano imbecille, però dentro di me ho altre esperienze di genere più… più concreto.
Alcuni anni dopo la fine della guerra ha anche fondato l’Urri, acronimo di Unione rinnovamento ragazzi d’Italia.
Sì. E l’ho mantenuto. Un impegno forte. Le domeniche le passavamo in montagna, tra escursioni, corsi di alpinismo. La montagna è maestra, e chi sale con te deve essere tuo fratello, perché la sfida alla natura è senza mezze misure o infingimenti: se sbagli paghi. I ragazzi venivano preparati anche in speleologia e archeologia; molti diventarono parà. Un gruppo di ragazzi in gamba, che preparavo anche alla meditazione profonda. Ma che tenni lontani dalle beghe politiche.
Da cosa era mosso?
Dalla necessità di riscrivere il mondo, cominciando da me stesso. Cercavo di mettere le mie deboli forze sotto i piedi, perché o si vive o si muore, ma se si vive bisogna darsi un po’ da fare. Esercitarsi col fisico, esercitarsi con la mente, esercitarsi con lo spirito.
L’Urri riassumeva le due linee guida della sua vita: lo studio e il combattimento.
Certo, perché a quel tempo era ancora palpabile il rischio di uno scontro fra i due blocchi nati dopo la fine della Seconda guerra mondiale, e la preparazione spirituale doveva andare di pari passo con quella fisica… come peraltro insegnavano i romani. Ma "Urri" non è soltanto una sigla, è soprattutto un termine vedico che indica il dio che sopravvive al tramonto degli dèi. Mi ispirai a questa figura: esser capace di fare qualsiasi cosa. Un po’ in contrasto con questo vecchio malandato che le sta parlando!
Le pesa la vecchiaia?
Bah, non me ne importa un fico secco, anche se dimentico molte cose. Ho avuto la possibilità di vivere la poesia, nel senso greco di poiesis, la bellezza di esprimere me stesso in quella che era la vita di un caballero. Ma sono passato attraverso queste esperienze come… come un divertimento.